Ha senso un tavolo con 171 gambe?
È solo una delle domande a cui risponde Fabio Novembre nel suo libroIl design spiegato a mia madre. A noi, però, ha incuriosito anche il fatto che non possegga una tv e abbia una teoria (estetica) persino sui divani dove fare l’amore
Entrare nello studio-abitazione milanese di Fabio Novembre è come varcare la soglia di un universo parallelo. Superato il cancello decorato che delimita il cortile, dove sonnecchiano i due gattoni del designer, si accede a un loft fatto di luce e con quasi tutto il piano terra adibito a stanza dei giochi per le due figlie, Celeste («Come il mio cielo», dice lui) e Verde («Come la mia terra»). Il suo nido creativo, invece, Novembre l’ha realizzato ristrutturando un vecchio deposito di frutta adiacente. Risultato: uno spazio che contraddice ogni idea di “casa”. Ma è perfetto per vivere e immaginare forme in evoluzione. Per l’intervista mi sono annotata tutte le definizioni che hanno dato di lui (uno dei designer italiani più amati nel mondo, capace di passare dagli interni glam di locali e negozi griffati ai mosaici di Bisazza, dalle sedute di Cappellini ai vassoi di Driade...). Sono tante. E tutte intrecciano il professionista all’uomo: esplosivo, passionale, fuori dalle mode... È, forse, per quest’ultima vocazione a stare fuori dal coro che, a due anni dalla retrospettiva milanese per i suoi primi 15 anni di attività, ha deciso di scrivere un libro dal titolo provocatorio: Il design spiegato a mia madre(Rizzoli). Come definirlo? Un manuale che diventa saggio, ma anche un’autobiografia tra lavoro e affetti... E comunque, è un racconto carico di buonumore, positivo, come il clima che ritrovo alla sua scrivania, con il gattone rosso che, nel frattempo, è entrato, si è sdraiato sul mio taccuino (durante l’incontro tenterò di spostarlo più volte, ma resterà fermo lì, con invidiabile aplomb).
Iniziamo dal titolo del libro: sua madre, scomparsa di recente, è un po’ tutte le madri. Ossia, tutti i non esperti di design che si chiedono, per esempio, perché un tavolo, come il suo famoso Org per Cappellini, nasca con 171 gambe...
«Ha presente il comico Maurizio Crozza, quando imita Massimiliano Fuksas? Ecco, quello è l’atteggiamento di molta gente: gli oggetti incomprensibili finiscono sotto l’etichetta del design. Ma, anche se lo sketch di Maurizio mi fa sorridere, non è proprio così. Le cose che ci circondano sono importanti, sono testimoni chiave della nostra vita: come il divano su cui abbiamo fatto l’amore per la prima volta con una ragazza o la poltrona del nostro tempo libero. Per questo bisogna circondarsi solo di oggetti che ci “muovano” emozioni dentro. Il design in realtà non si spiega, casomai si intuisce, si sente di pancia. È una poesia: nessuno di noi parla in versi nella vita di tutti i giorni, ma siamo in grado di comprenderne la bellezza. E, come la poesia, il design è superfluo, ma necessario. Lo diceva Oscar Wilde: “Nella vita moderna il superfluo è tutto”».
A proposito di sketch in tv: nel libro leggo che lei non ce l’ha...
«Non m’interessa. Per informarmi c’è Internet, che è uno strumento eccezionale. E se voglio vedere una serie in tv (come Boris, che adoro), lo faccio in streaming. Internet è responsabile della globalizzazione della cultura mondiale. Io la chiamo “sindrome di Twitter”: è la sensazione di partecipare, in ogni momento, a tutto ciò che succede nel mondo».
Nel libro sostiene che “meno è meglio”. Come ci riesce, visto che tutti i suoi colleghi si affannano a produrre?
«Semplice. Se fossi un cantante, anziché incidere mille pezzi e poi, a fine carriera, selezionarne 20 per una compilation di successi, inciderei direttamente il mio “Best of”. Per esempio, all’ultimo Salone del Mobile ho presentato due soli oggetti, non dieci».
Lei ha detto che Milano è stata “la sua ragnatela”. Ne è ancora convinto?
«Certo, è la culla delle mie relazioni e della mia creatività. Anche se oggi è diventata una città usa e getta, che si svuota nel weekend per quel rito assurdo che ci vuole tutti in fila in autostrada, all’andata e al ritorno. Io, invece, rimango e me la godo. Milano è tuttora la coscienza d’Italia, solo che se n’è dimenticata. Pensiamo all’immigrazione dei decenni passati. Questa era una città che accoglieva e integrava, è stata la sua forza. Dovrebbe tornare a farlo: per me, chiunque sia qui per lavorare e migliorare la città è “un milanese”».
Colpisce, tra le pagine, il suo rapporto col cibo. La preparazione dei pasti, l’atto di mangiare per lei sono riti fondamentali...
«Certo, viviamo il nostro corpo come sacro, lo curiamo, lo preserviamo, poi però ci nutriamo con cibi spazzatura, mangiati meccanicamente e preparati da sconosciuti».
C’entra qualcosa con la coscienza ecologica degli ultimi anni?
«Sicuramente. Ogni nostro gesto dovrebbe essere in sintonia con il pianeta. Guardi qui (mi mostra una pagina del suo nuovo blog, ndr): è un poster della fauna del Mediterraneo, dove i pesci sono rimpiazzati da bottiglie di plastica, cartacce, lattine. Tutto ci ritorna indietro con gli interessi».
La paternità ha accresciuto la sua sensibilità ambientalista?
«Certo. Avere figli è come tornare alle origini. Con Celeste, per esempio, che non parla, io sono l’uomo delle caverne che si esprime a gesti e suoni. Con le mie bambine ritrovo le cose più semplici, istintive».
Pensa di allargare ancora la famiglia?
«Se fosse possibile, io e mia moglie Candela vorremmo ancora una bambina. Leggevo un reportage dell’Economist, che parla della drastica diminuzione di femmine in Cina e India, a causa di aborti selettivi. È un segnale terribile. Il mondo ha bisogno di bambine, di sensibilità ed energia femminile, di donne».
Ma poi è riuscito a spiegare il design a sua madre?
«No, ovviamente (ride, ndr). Perché non importa quali obbiettivi hai raggiunto, i tuoi successi, i progetti che hai: quando parli a tua madre, ti restituirà sempre uno sguardo che vuol dire una cosa sola: “Avrai fame, ti preparo qualcosa da mangiare?”».
Iniziamo dal titolo del libro: sua madre, scomparsa di recente, è un po’ tutte le madri. Ossia, tutti i non esperti di design che si chiedono, per esempio, perché un tavolo, come il suo famoso Org per Cappellini, nasca con 171 gambe...
«Ha presente il comico Maurizio Crozza, quando imita Massimiliano Fuksas? Ecco, quello è l’atteggiamento di molta gente: gli oggetti incomprensibili finiscono sotto l’etichetta del design. Ma, anche se lo sketch di Maurizio mi fa sorridere, non è proprio così. Le cose che ci circondano sono importanti, sono testimoni chiave della nostra vita: come il divano su cui abbiamo fatto l’amore per la prima volta con una ragazza o la poltrona del nostro tempo libero. Per questo bisogna circondarsi solo di oggetti che ci “muovano” emozioni dentro. Il design in realtà non si spiega, casomai si intuisce, si sente di pancia. È una poesia: nessuno di noi parla in versi nella vita di tutti i giorni, ma siamo in grado di comprenderne la bellezza. E, come la poesia, il design è superfluo, ma necessario. Lo diceva Oscar Wilde: “Nella vita moderna il superfluo è tutto”».
«Non m’interessa. Per informarmi c’è Internet, che è uno strumento eccezionale. E se voglio vedere una serie in tv (come Boris, che adoro), lo faccio in streaming. Internet è responsabile della globalizzazione della cultura mondiale. Io la chiamo “sindrome di Twitter”: è la sensazione di partecipare, in ogni momento, a tutto ciò che succede nel mondo».
«Semplice. Se fossi un cantante, anziché incidere mille pezzi e poi, a fine carriera, selezionarne 20 per una compilation di successi, inciderei direttamente il mio “Best of”. Per esempio, all’ultimo Salone del Mobile ho presentato due soli oggetti, non dieci».
«Certo, è la culla delle mie relazioni e della mia creatività. Anche se oggi è diventata una città usa e getta, che si svuota nel weekend per quel rito assurdo che ci vuole tutti in fila in autostrada, all’andata e al ritorno. Io, invece, rimango e me la godo. Milano è tuttora la coscienza d’Italia, solo che se n’è dimenticata. Pensiamo all’immigrazione dei decenni passati. Questa era una città che accoglieva e integrava, è stata la sua forza. Dovrebbe tornare a farlo: per me, chiunque sia qui per lavorare e migliorare la città è “un milanese”».
«Certo, viviamo il nostro corpo come sacro, lo curiamo, lo preserviamo, poi però ci nutriamo con cibi spazzatura, mangiati meccanicamente e preparati da sconosciuti».
«Sicuramente. Ogni nostro gesto dovrebbe essere in sintonia con il pianeta. Guardi qui (mi mostra una pagina del suo nuovo blog, ndr): è un poster della fauna del Mediterraneo, dove i pesci sono rimpiazzati da bottiglie di plastica, cartacce, lattine. Tutto ci ritorna indietro con gli interessi».
«Certo. Avere figli è come tornare alle origini. Con Celeste, per esempio, che non parla, io sono l’uomo delle caverne che si esprime a gesti e suoni. Con le mie bambine ritrovo le cose più semplici, istintive».
«Se fosse possibile, io e mia moglie Candela vorremmo ancora una bambina. Leggevo un reportage dell’Economist, che parla della drastica diminuzione di femmine in Cina e India, a causa di aborti selettivi. È un segnale terribile. Il mondo ha bisogno di bambine, di sensibilità ed energia femminile, di donne».
«No, ovviamente (ride, ndr). Perché non importa quali obbiettivi hai raggiunto, i tuoi successi, i progetti che hai: quando parli a tua madre, ti restituirà sempre uno sguardo che vuol dire una cosa sola: “Avrai fame, ti preparo qualcosa da mangiare?”».
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